Santa Gianna Beretta Molla


Gianna nacque nel 1922 a Magenta. Nel 1954 conosce e sposa l’ingegnere Pietro Molla. Gianna è medico pediatria, continua però a curare tutti, specialmente chi è vecchio e solo. Per lei tutto è dovere, tutto è sacro: "Chi tocca il corpo di un paziente", dice, "tocca il corpo di Cristo". I coniugi vivono la tradizione religiosa familiare (Messa e preghiera quotidiana, vita eucaristica); Gianna ama lo sport, la musica, la pittura e il teatro, mentre arricchisce di novità la vita della locale Azione cattolica femminile.
Nascono i figli Pierluigi, Maria Rita e Laura. Durante la quarta gravidanza, la scoperta di un fibroma all’utero, l’ospedale, la gravità sempre più evidente del caso, la prospettiva di rinuncia alla maternità per non morire e per non lasciare soli tre orfani.
Ma Gianna colloca al primo posto il diritto a nascere. E così decide: a prezzo della sua vita e del dolore dei suoi, Gianna Emanuela nasce, e sua madre può ancora tenerla tra le braccia, prima di morire il 28 aprile 1962, sabato santo. Gianna Emanuela, nata dal suo sacrificio, vuole onorare la mamma, dedicando la sua vita alla cura e all’assistenza agli anziani.
E' stata proclamata beata da Giovanni Paolo II nel 1994 e santa nel 2004.

Cassie Bernal


Cassie Bernall nasce il 6 novembre 1981, trascorre la sua adolescenza passando attraverso varie esperienze di trasgressione, come l’autolesionismo e il consumo di alcolici. Era ossessionata dalla morte e dai vampiri. Amava la musica satanica ed aveva perfino progettato di
uccidere i suoi genitori. A un certo punto però la vita di Cassie cambiò radicalmente. Inizio a frequentare un gruppo cristiano di giovani e si innamorò di Gesù. Il vangelo comincio a prendere sempre più posto nel suo cuore e a cancellare completamente il suo passato.
Fu così che Cassie, appena diciassettenne cominciò a portare ovunque la sua testimonianza di fede, fino al giorno della sua morte avvenuta in modo tragico il 20 aprile 1999.
Quella mattina, giorno dell’anniversario della morte di Adolf Hitler, due studenti armati entrarono nella scuola superiore di Littletown in America e uccisero 13 studenti e ne ferirono una decina, prima di togliersi loro stessi la vita.
Il motivo di questa strage fu subito evidente, ma non venne subito reso pubblico: si trattava di un odio profondo verso i cristiani praticanti. Alcuni di loro erano conosciuti per la loro fede attiva, come erano altrettanto conosciuti gli assassini per il loro modo di vivere senza Dio e per le loro idee neo-naziste.
Quando gli assassini assalirono la scuola, Cassie si era nascosta sotto i tavoli della biblioteca insieme ad altri studenti.
Uno degli assassini fece una domanda: "C'è qualcuno qui che crede in Dio?".
Cassie nel suo intimo si chiese: "In questo momento, al mio posto, cosa farebbe Gesù?".
Rifletté un attimo, poi si alzò e disse: "Sì, io credo in Gesù Egli ama anche te!".
"Dio non esiste!" gli rispose l'assassino e le sparò!
Cassie aveva l'intenzione di studiare medicina.
Nel suo tempo libero era molto attiva nel gruppo giovanile della Chiesa che frequentava. Faceva crescere i suoi capelli per farne fare delle parrucche per i bambini malati di cancro! Cassie portava apertamente la sua Bibbia a scuola.
Un pastore evangelico della California disse: "Voi giovani cercate degli eroi? Non guardate i giocatori di basket o gli attori della tv, il vostro esempio è Cassie!"
Cassie in un suo appunto del 1998 aveva scritto:
«Quando Dio non vuole che io faccia qualcosa, lo capisco chiaramente; quando vuole che faccia qualcosa, anche se ciò significa allontanarmi dalle mie “comodità”, lo sento ugualmente. Mi sento spinta ad andare esattamente dove devo andare... Cerco di prendere le difese della mia fede a scuola... Può essere scoraggiante, ma anche gratificante... Vorrei morire per Dio. Vorrei morire per la mia fede. È il minimo che possa fare per Cristo, che è morto
per me».

10° anniversario di Ordinazione Episcopale del nostro vescovo

Giovedì 12 aprile 2012 il nostro amato vescovo Paolo ha festeggiato il 10° anniversario dell'Ordinazione Episcopale come vescovo di Ragusa. Ecco il testo integrale dell'omelia pronunciata in occasione della celebrazione eucaristica tenutasi in Cattedrale:

Fratelli ed amici carissimi,

saluto con particolare affetto gli Arcivescovi e Vescovi di Sicilia qui presenti e coloro che impossibilitati a venire mi hanno comunicato la loro vicinanza spirituale, le varie Autorità civili e militari e ciascuno dei presenti. A tutti la mia sincera gratitudine per l’affetto che mi dimostrate e per la preghiera con la quale mi sostenete. La vostra presenza qui stasera mi conforta e mi dà gioia.

Sono trascorsi dieci anni da quando, in questa chiesa cattedrale, fui ordinato Vescovo, in un clima di gioiosa commozione e di profonda comunione, soprattutto tra le chiese di Acireale, nella quale sono stato formato da educatori eccellenti, e di Ragusa, che mi accoglieva con amore e senza riserve. Sarò sempre grato al Cardinale Salvatore De Giorgi, allora Arcivescovo di Palermo e Presidente della Conferenza Episcopale Siciliana, e ai Vescovi concelebranti per essersi fatti strumento di trasmissione della grazia del Signore. Sono grato a tutti coloro che, in quell’occasione, mi furono affettuosamente vicini. Penso con nostalgia al Cardinale Salvatore Pappalardo, al vescovo Angelo Rizzo e agli amici che non sono più fisicamente tra noi ma il cui ricordo è costante nel mio cuore.
Non ringrazierò mai abbastanza il Signore per avermi inviato alla Chiesa di Ragusa come pastore, fratello ed amico. Voi siete stati per me un magnifico e prezioso dono di Dio.
Celebrare gli anni di episcopato di un vescovo significa celebrare il cammino di una comunità perché “il Vescovo è nella Chiesa e la Chiesa è nel Vescovo”. Da dieci anni camminiamo insieme, guidati dalla Parola e con gli occhi e le orecchie aperti sul mondo, sul nostro piccolo grande mondo.
Pur nella consapevolezza che solo Dio è capace di leggere nel cuore dell’uomo, mi piace ricordare alcuni passi del nostro cammino di Chiesa, rendendo grazie a Dio per il bene che ci ha concesso di compiere e ringraziando tutti, sacerdoti e laici, per il generoso impegno nel servizio a Dio e all’uomo.

Abbiamo risposto al bisogno di alcune comunità di avere nuovi complessi parrocchiali e adeguate case canoniche; abbiamo restaurato beni culturali e ristrutturato ambienti per le attività pastorali.
Soprattutto abbiamo curato la nostra formazione e sollecitato la corresponsabilità di tutti – organismi e singoli fedeli – nell’individuare e realizzare progetti pastorali condivisi.
Per “essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo” (Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, 6.1.2001, n. 43), abbiamo sognato e dato impulso perché la nostra Chiesa sia la casa e la scuola della comunione.
Ci siamo fatti ascoltatori attenti dei poveri, vecchi e nuovi, rispondendo come abbiamo saputo e potuto alle loro esigenze con tenace determinazione e concretezza.
Abbiamo allargato lo sguardo e creato ponti di solidarietà con i nostri amici missionari in Brasile, in Congo, in Madagascar, in Siria, in Egitto, in Camerun, in Terra Santa...
Ci siamo preoccupati di rendere le nostre celebrazioni vere, belle, semplici ed eloquenti, rifiutando la banalità, l’approssimazione, l’improvvisazione e il cattivo gusto.
Convinti della centralità della Parola di Dio nella vita della Chiesa, abbiamo favorito la creazione dei “centri di ascolto” per condividere, nella semplicità e nella preghiera, ciò che il Signore dice alla nostra comunità.
Rispondendo alla richiesta di papa Benedetto, espressa in “Sacramentum caritatis”, abbiamo avuto la gioia di poter “riservare” due chiese per l’adorazione perpetua (giorno e notte per tutti i giorni dell’anno) e una cappella per l’adorazione diurna.
E chissà quante altre cose il Signore ha operato attraverso le nostre povere mani e il nostro fragile cuore.
Adesso, che cosa ci chiedi, Signore? Che cosa vuoi da noi? Che cosa dobbiamo fare?
Dalla Parola, che è stata proclamata, colgo tre indicazioni, che presento in maniera molto rapida.
1. Il Signore ci chiede di spostare l’attenzione da noi a Lui.
Il libro degli Atti ci ha raccontato l’episodio della guarigione dello storpio. La gente è fuori di sé per lo stupore e si stringe attorno a Pietro e Giovanni. Ma Pietro, preoccupato per la piega che la situazione sta prendendo, chiarisce i meriti di ciascuno: «Uomini d’Israele, perché vi meravigliate di questo e perché continuate a fissarmi come se per nostro potere o per la nostra religiosità avessimo fatto camminare quest’uomo?... il nome di Gesù ha dato vigore a quest’uomo che voi vedete e conoscete; la fede che viene da lui ha dato a quest’uomo la perfetta guarigione alla presenza di tutti voi». La guarigione dello storpio, dice Pietro, non è opera né mia né di Giovanni. Il «guaritore» è un altro, è Gesù. È lui che ha guarito l’uomo; noi siamo stati solo strumenti docili nelle Sue mani.
È compito della Chiesa indicare con chiarezza chi libera l’uomo dalla sua incapacità di camminare, chi è il Salvatore del mondo. A chi guarda a lei, la Chiesa deve dire, indicando Gesù, «Ecco l’agnello di Dio; ecco colui che toglie il peccato del mondo». Come Pietro e come Giovanni Battista. Non può prendersi meriti che non ha, così come non può compiere nulla per essere ammirata. La tentazione dell’ esibizionismo, singolo o comunitario, è sempre dietro l’angolo. «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, ci ha insegnato Gesù, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16). Gesù ci chiede di compiere opere luminose e visibili, «ma la loro visibilità dev’essere accompagnata da una sorta di trasparenza, che non ferma l’attenzione su di sé, ma invita gli uomini a prolungare lo sguardo verso Dio... Anzi, per assicurare questa trasparenza chi compie le opere buone deve, in un certo senso, tenerle segrete persino a se stesso» (CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità, 8.12.1990, n. 21). La tua sinistra non sappia ciò che fa la tua destra! (cfr. Mt 6,3).

2. Il Signore ci chiede di non lasciarci bloccare da turbamenti e dubbi
Gli apostoli sono riuniti. Sono tornati anche i due discepoli di Emmaus, che narrano «ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane». Improvvisamente, Gesù in persona, dice il vangelo di Luca, sta in mezzo a loro e dice: «Pace a voi». I discepoli, «sconvolti e pieni di paura», credono di vedere un fantasma. Ma Gesù: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore... Sono proprio io!». E li invita a guardare le sue mani e i suoi piedi, a toccarlo, a constatare che ha carne ed ossa. Di fronte al persistere della loro incredulità e al loro stupore, chiede di offrirgli qualcosa da mangiare, e davanti a loro mangia una porzione di pesce arrostito.
Nel racconto c’è una insistenza sui sentimenti dei discepoli e l’assenza di qualunque loro azione, tranne quella di offrire a Gesù, dietro esplicita richiesta, il pesce arrostito. Essi sono “sconvolti”, “pieni di paura”, “turbati”, dubbiosi, “pieni di stupore”; addirittura la gioia diventa motivo di incredulità (“per la gioia non credevano ancora”). Gesù li invita a guardarlo e a toccarlo. E loro rimangono lì senza parole, come bloccati. Non è facile credere nella risurrezione di Gesù. La paura, il turbamento, il dubbio, diventano ostacoli all’incontro con Gesù vivo. Commentando questa pagina, il monaco camaldolese Innocenzo Gargano scrive: «Sospetti, dubbi, insinuazioni Gesù li aveva notati in interlocutori malevoli in occasione di suoi gesti concreti coi quali aveva affermato la presenza di Dio attraverso la sua parola salvifica, guaritrice. Ma costatare che quegli stessi sospetti trovano ora spazio nel cuore dei suoi discepoli nonostante ci sia presente lui col dono della pace e dello shalom, certamente non gli fa piacere. Il disappunto di Gesù si fa più serio nel constatare che i discepoli non riescono a fugare il dubbio di essere di fronte ad un fantasma» (Lectio divina sui racconti della risurrezione, EDB, 101-102).
La paura è incomprensione e incredulità. È la sorpresa di trovarsi di fronte ad un fatto non previsto perché non creduto possibile. È lo stordimento che toglie la gioia. È il mutismo provocato dal timore di essere fraintesi, giudicati male o non creduti. È rimanere senza parole, nella consapevolezza di non possedere il linguaggio adatto per esprimere l’esperienza fatta.
Gesù invita la nostra Chiesa a non aver paura, a non fuggire lontano da Lui, a non diventare una Chiesa muta, a non temere l’ironia di chi non crede che Gesù è risorto. Noi sappiamo e crediamo che Gesù, il crocifisso risorto, ci ama e cammina con noi. Sempre e nonostante tutto. un’unica nostra paura, l’unica nostra tristezza è di non essere santi. Siamo grati a Giovanni Paolo II che, come ha detto papa Benedetto, «ha aiutato i cristiani di tutto il mondo a non avere paura di dirsi cristiani, di appartenere alla Chiesa, di parlare del Vangelo. In una parola: ci ha aiutato a non avere paura della verità, perché la verità è garanzia della libertà» (1.5.2011).
3. Il Signore ci chiede di mostrare le mani e i piedi
La richiesta di Gesù è ricca di simbolismo. Egli vede la paura, il turbamento e i dubbi degli apostoli di fronte alla sua presenza inattesa e sconvolgente. Per aiutarli a superare quei momenti, prospetta loro un “segno”, quasi una prova della sua identità: «Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!» Ed insiste: «Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». E l’evangelista annota: «Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi».
Perché proprio le mani e i piedi? Perché non il volto? Le mani e i piedi portano i segni della crocifissione. Quando gli amici gli dicono «Abbiamo visto il Signore!», Tommaso chiederà la prova delle mani e del fianco squarciato: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo, sarà lo stesso Gesù a fare riferimento alle mani e al fianco: «Metti qui il tuo dito, dice a Tommaso, e guarda le mie mani; tendi la mano e mettila nel mio fianco» (Gv 20,25.27). «Mani e piedi, ha detto don Tonino Bello, con tanto di marchio! Ecco le coordinate essenziali per ricostruire la carta d’identità del Risorto. Mani bucate. Richiamo a quella inesauribile carità verso i fratelli, che si fa donazione a fondo perduto. Piedi forati. Appello esigente a quell’amore verso il Signore, che ci fa scorgere il senso ultimo delle cose attraverso le ferite della sua carne trasfigurata» (Antonio Bello, Dalla testa ai piedi. La Quaresima tra cenere e acqua, La meridiana, 32).
Attraverso il «marchio» impresso nelle mani e nei piedi Gesù mostra che il suo amore è sconfinato, che non si è fermato nemmeno dinanzi alla morte, che ha anzi sconfitto la morte. Veramente il suo amore è per sempre!
Anche la Chiesa è chiamata a mostrare «mani e piedi», mani bucate e piedi forati. Nei fratelli Karamàzov, Ivàn confessa al fratello che è impossibile amare il prossimo se lo si vede, perché si colgono gli elementi peggiori: «non ho mai potuto capire come si possa amare il prossimo. È appunto chi ti sta vicino che, secondo me, è impossibile amare; chi è lontano forse sì... Per amare un uomo occorre che questi si celi alla nostra vista: non appena mostra il suo viso l’amore svanisce» (La rivolta, I, 328).
Gesù dice oggi alla nostra Chiesa di amare sempre e tutti, riconoscendo come fratelli e sorelle le persone che incontriamo sul nostro cammino. La nostra missione è l’amore. «Missione è avere coraggio di amare senza riserve» (CEI, La Chiesa in Italia dopo Loreto. Nota pastorale, 9.6.1985, n. 51). Pungente e provocatorio, Bruce Marshall mette in bocca a p. Malachia questa considerazione: «Com’era difficile amare il prossimo, eppure com’era necessario... Se doveva amare il prossimo suo, l’avrebbe amato senza guardarlo in faccia» (Il miracolo di padre Malachia, p. 15). Noi invece vogliamo amare il prossimo ad occhi aperti, guardandolo in faccia e mostrando in ogni circostanza un volto di bontà e di misericordia.
Nel contesto dell’impegno di carità che contraddistingue la comunità diocesana, desidero esprimere pubblicamente alle Autorità qui presenti la mia gratitudine per lo stile che si è creato in questi anni. Nessuna confusione di compiti, nessuna interferenza, ma solo una rispettosa e corretta collaborazione per il bene della nostra gente.
Concludo con l’invito di Paolo VI ad amare la Chiesa, ad amare questa nostra Chiesa: «Oggi un po’ tutti guardano alla Chiesa; ma non tutti con amore... Noi per amarla. Dobbiamo amare la Chiesa per desiderarla come Cristo la pensò e la istituì, sempre bisognosa di purificazione e di santificazione, ma destinandola alla fine ad essere degna di Lui, immacolata e gloriosa (cfr. Eph. 5,25-27). Non sbaglieremo mai a idealizzare con il nostro amore la Chiesa di Cristo! Dobbiamo amarla anche per le sue deficienze e per le sue necessità. E dobbiamo amarla oggi più che mai... Amarla dobbiamo, la Chiesa, come Cristo la amò, dando per lei la sua vita» (All’Angelus, 26.9.1971).
Utilizzando il titolo dell’ultimo libro di Massimo Gramellini, dico: “Fai bei sogni” Chiesa di Ragusa e il Signore li realizzerà!



Paolo Urso, vescovo

E' Pasqua. Non abbiate paura e non fuggite


Buona Pasqua, amici miei! Buona Pasqua a tutti!

Ancora una volta ci scambiamo con gioia la bella notizia che Gesù, il crocifisso, è risorto e ci dà la possibilità di risorgere con Lui, di condurre una vita buona, vera e piena, di guardare avanti con
serenità e fiducia. Il mio augurio pasquale vuole essere, quest’anno, soprattutto un invito a non avere paura di Dio e delle sorprese che ci riserva, a non fuggire davanti alle responsabilità che ci affida.

Leggiamo insieme il vangelo di Marco, capitolo 16, versetti 1-8.
Tre donne (Maria di Magdala, Maria la madre di Giacomo e Salome), dopo aver comprato gli oli aromatici per ungere il corpo di Gesù, di buon mattino, al levare del sole, vengono al sepolcro. Hanno però una preoccupazione: l’ingresso alla tomba è chiuso da una pietra molto grande, come faremo ad entrare? Chi farà rotolare la pietra? Quando arrivano (fate ttenzione ai tre verbi perché indicano tre passaggi importanti per leggere la raltà), alzano lo sguardo, osservano con particolare attenzione e vedono che la pietra è già stata fatta
rotolare. Entrano e si accorgono che c’è un giovane, seduto sulla destra, con indosso una veste bianca. Il narratore annota la reazione delle tre donne: “ebbero paura”. Il giovane le incoraggia: “Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto”.
E poi le invita ad andare e a riferire ai discepoli e a Pietro: “Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”. Cosa fanno le donne? Escono e scappano via perché sono “piene di spavento e di stupore”. Non solo. Non dicono niente a nessuno perché sono “impaurite”.

Il brano, come avete certamente notato, è essenziale, piuttosto misterioso, suscita molti interrogativi e richiama altri brani. Pensate, per esempio, al giovane che è seduto alla destra. Ma alla destra di chi o di dove? E che cosa vuol dire che indossa una veste bianca? Perché Gesù dà appuntamento a Pietro e ai discepoli in Galilea?

Il dato che ritorna con insistenza è la paura. Le tre donne hanno paura quando vedono il giovane; escono dal sepolcro e fuggono via perché sono spaventate e stupite; non raccontano niente a nessuno perché sono impaurite. È proprio perché le vede in preda alla paura che il giovane, seduto sulla destra e vestito di una veste bianca, prima ancora di annunciare che Gesù non è più nel sepolcro perché è risorto, cerca di rasserenarle e le invita a non avere paura.

Ma cos’è questa paura?

È incomprensione e incredulità. È la sorpresa di trovarsi di fronte ad un fatto non previsto perché non creduto possibile. Sì, è vero, Gesù aveva detto che sarebbe stato ucciso e che dopo tre giorni sarebbe risorto. Ma come si fa a credere che un morto possa risorgere!

È lo stordimento che toglie la gioia. È significativo che nel racconto di Marco non si faccia il più piccolo accenno alla comprensibile e prevedibile gioia delle tre donne quando viene loro annunciato che Gesù, l’amato, è vivo. Invece della gioia c’è la fuga da paura. È mutismo provocato dal timore di essere fraintesi, giudicati male o non creduti. È rimanere senza parole, nella consapevolezza di non possedere il linguaggio adatto per esprimere l’esperienza fatta.

Non dobbiamo avere paura di Gesù, non dobbiamo fuggire lontano da Lui, non dobbiamo diventare muti. Qualunque cosa Egli faccia e qualunque cosa Egli ci chieda. Gesù, il crocifisso risorto, ci ama e cammina con noi. A Madrid, papa Benedetto ha invitato i giovani a non farsi paralizzare da nessuna avversità: “Non abbiate paura del mondo, né del futuro, né della vostra debolezza. Il Signore vi ha concesso di vivere in questo momento della storia, perché grazie alla vostra fede continui a risuonare il suo Nome in tutta la terra” (20 agosto 2011).

Buona Pasqua, amici miei! Buona Pasqua a tutti!

Paolo, vescovo


Il triduo pasquale

Questi tre giorni vengono comunemente chiamati “santi” perché ci fanno rivivere l’evento centrale della nostra Redenzione; ci riconducono infatti al nucleo essenziale della fede cristiana:
la passione, la morte e la risurrezione di Gesù Cristo. Sono giorni che potremmo considerare come un unico giorno: essi costituiscono il cuore ed il fulcro dell'intero anno liturgico come pure della vita della Chiesa. Al termine dell’itinerario quaresimale, ci apprestiamo anche noi ad entrare nel clima stesso che Gesù visse allora a Gerusalemme. Vogliamo ridestare in noi la viva memoria delle sofferenze che il Signore ha patito per noi e prepararci a celebrare con gioia, domenica prossima, “la vera Pasqua, che il Sangue di Cristo ha coperto di gloria, la Pasqua in cui la Chiesa celebra la Festa che è l’origine di tutte le feste”.

Nel Giovedì Santo, la Chiesa fa memoria dell’Ultima Cena durante la quale il Signore, la vigilia della sua passione e morte, ha istituito il Sacramento dell’Eucaristia e quello del Sacerdozio ministeriale. In quella stessa notte Gesù ci ha lasciato il comandamento nuovo, il comandamento dell’amore fraterno. Prima di entrare nel Triduo Santo, ma già in stretto collegamento con esso, avrà luogo in ogni Comunità diocesana, il giovedì mattina, la Messa Crismale, durante la quale il Vescovo e i sacerdoti del presbiterio diocesano rinnovano le promesse dell’Ordinazione.
Vengono anche benedetti gli olii per la celebrazione dei Sacramenti: l’olio dei catecumeni, l’olio dei malati e il sacro crisma. É un momento quanto mai importante per la vita di ogni comunità diocesana che, raccolta attorno al suo Pastore, rinsalda la propria unità e la propria fedeltà a Cristo, unico Sommo ed Eterno Sacerdote. Alla sera, nella Messa in Cena Domini si fa memoria dell’Ultima Cena quando Cristo si è dato a tutti noi come nutrimento di salvezza, come farmaco di immortalità: è il mistero dell'Eucaristia, fonte e culmine della vita cristiana. In questo Sacramento di salvezza il Signore ha offerto e realizzato per tutti coloro che credono in Lui la più intima unione possibile tra la nostra e la sua vita. Col gesto umile e quanto mai espressivo della lavanda dei piedi, siamo invitati a ricordare quanto il Signore fece ai suoi Apostoli: lavando i loro piedi proclamò in maniera concreta il primato dell'amore, amore che si fa servizio fino al dono di se stessi, anticipando anche così il sacrificio supremo della sua vita che si consumerà il giorno dopo sul Calvario. Secondo una bella tradizione, i fedeli chiudono il Giovedì Santo con una veglia di preghiera e di adorazione eucaristica per rivivere più intimamente l’agonia di Gesù al Getsemani.

Il Venerdì Santo è la giornata che fa memoria della passione, crocifissione e morte di Gesù. In questo giorno la liturgia della Chiesa non prevede la celebrazione della Santa Messa, ma l’assemblea cristiana si raccoglie per meditare sul grande mistero del male e del peccato che opprimono l’umanità, per ripercorrere, alla luce della Parola di Dio e aiutata da commoventi gesti liturgici, le sofferenze del Signore che espiano questo male. Dopo aver ascoltato il racconto della passione di Cristo, la comunità prega per tutte le necessità della Chiesa e del mondo, adora la Croce e si accosta all’Eucaristia, consumando le specie conservate dalla Messa in Cena Domini del giorno precedente. Come ulteriore invito a meditare sulla passione e morte del Redentore e per esprimere l’amore e la partecipazione dei fedeli alle sofferenze di Cristo, la tradizione cristiana ha dato vita a varie manifestazioni di pietà popolare, processioni e sacre rappresentazioni, che mirano ad imprimere sempre più profondamente nell’animo dei fedeli sentimenti di vera partecipazione al sacrificio redentivo di Cristo. Fra queste spicca la Via Crucis, pio esercizio che nel corso degli anni si è arricchito di molteplici espressioni spirituali ed artistiche legate alla sensibilità delle diverse culture. Sono così sorti in molti Paesi santuari con il nome di "Calvaria", ai quali si giunge attraverso un’erta salitache richiama il cammino doloroso della Passione, consentendo ai fedeli di partecipare all’ascesa del Signore verso il Monte della Croce, il Monte dell’Amore spinto fino alla fine.

Il Sabato Santo è segnato da un profondo silenzio. Le Chiese sono spoglie e non sono previste particolari liturgie. Mentre attendono il grande evento della Risurrezione, i credenti perseverano con Maria nell’attesa pregando e meditando. C’è bisogno in effetti di un giorno di silenzio, per meditare sulla realtà della vita umana, sulle forze del male e sulla grande forza del bene scaturita dalla Passione e dalla Risurrezione del Signore. Grande importanza viene data in questo giorno alla partecipazione al Sacramento della riconciliazione, indispensabile via per purificare il cuore e predisporsi a celebrare intimamente rinnovati la Pasqua. Questo Sabato di silenzio, di meditazione, di perdono, di riconciliazione sfocia nella Veglia Pasquale, che introduce la domenica più importante della storia, la domenica della Pasqua di Cristo. Veglia la Chiesa accanto al nuovo fuoco benedetto e medita la grande promessa, contenuta nell’Antico e nel Nuovo Testamento, della liberazione definitiva dall’antica schiavitù del peccato e della morte. Nel buio della notte viene acceso dal fuoco nuovo il cero pasquale, simbolo di Cristo che risorge glorioso. Cristo luce dell’umanità disperde le tenebre del cuore e dello spirito ed illumina ogni uomo che viene nel mondo. Accanto al cero pasquale risuona nella Chiesa il grande annuncio pasquale: Cristo è veramente risorto, la morte non ha più alcun potere su di Lui. Con la sua morte Egli ha sconfitto il male per sempre ed ha fatto dono a tutti gli uomini della vita stessa di Dio. Per antica tradizione, durante la Veglia Pasquale, i catecumeni ricevono il Battesimo, per sottolineare la partecipazione dei cristiani al mistero della morte e della risurrezione di Cristo. Dalla splendente notte di Pasqua, la gioia, la luce e la pace di Cristo si espandono nella vita dei fedeli di ogni comunità cristiana e raggiungono ogni punto dello spazio e del tempo. […]

I suggestivi riti del Giovedì Santo, del Venerdì Santo, il silenzio ricco di preghiera del Sabato Santo e la solenne Veglia Pasquale ci offrono l’opportunità di approfondire il senso e il valore della nostra vocazione cristiana, che scaturisce dal Mistero Pasquale e di concretizzarla nella fedele sequela di Cristo in ogni circostanza, come ha fatto Lui, sino al dono generoso della nostra esistenza. Far memoria dei misteri di Cristo significa anche vivere in profonda e solidale adesione all'oggi della storia, convinti che quanto celebriamo è realtà viva ed attuale. […] Questi giorni rianimano in noi la grande speranza: Cristo crocifisso è risorto e ha vinto il mondo. L’amore è più forte dell’odio, ha vinto e dobbiamo associarci a questa vittoria dell’amore. Dobbiamo quindi ripartire da Cristo e lavorare in comunione con Lui per un mondoCorsivo fondato sulla pace, sulla giustizia e sull’amore. In quest’impegno, che tutti ci coinvolge, lasciamoci guidare da Maria, che ha accompagnato il Figlio divino sulla via della passione e della croce e ha partecipato, con la forza della fede, all'attuarsi del suo disegno salvifico. Con questi sentimenti, formulo fin d’ora i più cordiali auguri di lieta e santa Pasqua a tutti voi, ai vostri cari e alle vostre Comunità.

(Catechesi del Santo Padre Benedetto XVI all’udienza generale del 19 marzo 2008)